La realtà però è spesso diversa. A Rosarno come a Milano al dialogo si è sostituita la violenza tra fazioni di immigrati e di italiani o tra immigrati di diverse nazionalità. Che idea si è fatto di queste vicende?
“Gli uomini sono rissosi e gli italiani non sono migliori. Le persone che vengono a vivere in Italia, questi nostri fratelli, non rappresentano le élite culturali delle loro società di provenienza. Sono persone in uno stato di bisogno economico e che provengono da situazioni di disagio. Persone che arrivano in Italia per cercare benessere e che entrano nel nostro paese dalla ‘porta di servizio’, nei quartieri più difficili, più emarginati. Forse la società italiana non si è preparata per tempo all’accoglienza e all’integrazione di questi gruppi di persone. Questo provoca delle ‘febbri’ sociali che poi si esprimono in questi tristi episodi. Nel caso della Calabria è stato, in particolar modo, l’elemento razziale a prendere il sopravvento. Sono situazioni tragiche da prendere molto sul serio. La nostra società d’altra parte in questo momento è completamente avvolta dalla violenza a partire proprio dal sud Italia, passando per la politica e per lo stesso sport, dove si può arrivare anche ad ammazzarsi per una partita di pallone”.
Quale può essere il ruolo delle nostre parrocchie?
“La Chiesa deve avere il compito di indicare il principio del rispetto della persona. Non si può far passare il ragionamento per cui quando si ha bisogno di manodopera facciamo arrivare queste persone da noi, facendoli lavorare alle nostre condizioni, dimenticando i loro diritti e poi alla prima crisi economica li rimandiamo a casa. Il Vangelo in questo senso è molto chiaro, non si può discriminare tra persona umana e persona umana e noi, in quanto cristiani, abbiamo il dovere dell’accoglienza e del rispetto. Le nostre parrocchie possono essere degli spazi in cui si elabora una “convinzione popolare”, una maturazione di base per cui l’ospitalità non è un ‘eroismo raro’ ma una vera e propria scelta morale che richiede coraggio, generosità, realismo e un impegno di carità” .
La Svizzera solo pochi mesi fa, con un referendum, ha scelto di dire “no” alla costruzione di nuovi minareti sul proprio territorio. Perchè secondo lei c’è questa chiusura così diffusa nei confronti dell’ “altro”?
“Perché l’Islam è l’’altro’ per eccellenza. Un ‘altro’ radicale, che rispetto ad altri gruppi umani diventa più difficile da ‘assimilare’. Un ‘altro’ che mangia diverso, si veste diverso, fa festa in un giorno della settimana diverso dal nostro. Una comunità nel vero senso della parola che pone forti interrogativi a chi è abituato ad una società fortemente monoculturale, monocolore come la nostra. Eravamo abituati a dividerci unicamente tra religiosi e laici, credenti e non credenti. Ci siamo svegliati una mattina e ci siamo accorti della presenza di una realtà diversa, con una propria gerarchia di valori, dei propri principi morali. Di fronte a ciò abbiamo due strade: o diciamo che tutto questo non ci piace, scegliendo di ragionare per scompartimenti separati, scegliendo un mondo da ‘separati in casa’, oppure possiamo decidere con saggezza che è arrivato il tempo di vivere assieme, accettando il fatto che la società del futuro sarà in ogni caso interculturale e interreligiosa”.
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