Una tragedia della disperazione e dell’emarginazione. Se c’è un modo per raccontare la morte di Massimo Bosco, 40enne nato in Germania ma di origini calabresi è proprio questo. Massimo, ex pentito di ndrangheta, è morto nel parco del Pionta, dove si trovava il suo riparo di fortuna per la notte. È morto al termine di una lite “per futili motivi”, ucciso da una pietra, scagliata da altri due disperati, un rumeno e una donna italiana.
La scena che si sono trovati di fronte gli inquirenti, la scorsa notte, non è quella di una rissa tra bande criminali, né tanto meno di una rapina finita male.
I protagonisti di questa storia avevano tutti problemi di alcol, droga e solitudine. Nel caso della donna coinvolta si aggiungono anche disturbi psichiatrici. Tutti erano transitati dal Centro d’ascolto Caritas.
Per questo, l’omicidio del Pionta non può essere rilegato ad una mera questione di “sicurezza”. Certo, è vero che il parco tra la stazione ferroviaria e l’ospedale, soprattutto di notte, diventa territorio per spacciatori e persone poco raccomandabili. Non è accettabile che sia lasciata nel più completo abbandono una zona così importate per la Città. Su questo punto l’amministrazione comunale è chiamata a rispondere, senza più tentennamenti e rinvii.
Ma c’è anche dell’altro. La morte di Massimo Bosco è, purtroppo, il risvolto più brutto dei freddi numeri che raccontano la crisi senza fine che stiamo vivendo. Dietro a quelle cifre (le ultime sono quelle pubblicate ieri, dal rapporto Caritas) ci sono persone e disagi che troppo spesso restano in silenzio. E la disperazione non si può fermare soltanto con qualche telecamera in più, nessuno si illuda.
Foto: Jonathan Barillari