ANSA – Dopo la politica sul campo, anche il tempo ha decretato ufficialmente la fine dei negoziati tra israeliani e palestinesi: sono scaduti martedì 29 aprile i nove mesi decisi nello scorso luglio a Washington, sotto la spinta del presidente Usa Barack Obama e del segretario di Stato John Kerry, per trovare un accordo di pace tra le due parti. Ed è una fine tra le polemiche: il negoziatore capo palestinese Saeb Erekat, addossando la colpa del fallimento al governo del premier Benjamin Netanyahu, ha tirato l’ultimo fendente: secondo lui, il governo di unità nazionale tra Fatah e Hamas è stato un “pretesto” addotto da Israele per interrompere i colloqui, “è la dimostrazione che se il governo israeliano fosse sinceramente interessato alla pace, coglierebbe questa opportunità”. “Costruire nuovi insediamenti, uccidere palestinesi, distruggere centinaia di case palestinesi – ha sottolineato il diplomatico – non è il comportamento di chi vuole porre fine all’occupazione, ma piuttosto di un governo che vuole trasformare l’occupazione in annessione”. Israele, ha detto, ha preferito “consolidare un regime di apartheid” invece che “raggiungere una soluzione con due Stati”.
Un concetto riecheggiato lunedì dallo stesso Kerry, in una dichiarazione rilanciata dal Daily Beast: senza un accordo di pace Israele “rischia l’apartheid”, oltre a non essere più uno Stato ebraico. Il giorno successivo, però, il segretario di Stato Usa ha detto di essere stato male interpretato: “Se potessi tornare indietro- ha detto Kerry in un comunicato diffuso dal dipartimento di Stato- sceglierei parole diverse per descrivere il mio fermo convincimento” che l’unica via sia quella di un accordo di pace con due stati che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza. Fatto sta che dal 29 aprile non c’è un tavolo negoziale aperto, almeno formalmente.
Ma, come in ogni ‘storia senza fine’, la leadership di Ramallah sembra lasciare aperto uno spiraglio. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen – e anche Erekat – ha ribadito che i negoziati possono essere allungati. Ad un patto però: Israele liberi l’ultima tranche di 30 palestinesi in carcere (che dovevano essere rilasciati lo scorso fine marzo); accetti di discutere per tre mesi “la mappa” dei confini del futuro Stato palestinese e congeli gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme est. A questo proposito, l’ong israeliana Peace Now ha ricordato che nei nove mesi sono stati avviati 13.851 piani e avvisi di gare per nuove case in entrambe le zone.
Ma alle condizioni poste da Ramallah, il governo di Netanyahu, almeno per ora, non ha neppure risposto. Per il premier israeliano la trattativa è finita, non solo di fronte al fatto che l’Anp non voglia riconoscere Israele come “Stato ebraico”, ma soprattutto a causa di due mosse di Abu Mazen. La prima è stata quando ai primi di aprile il presidente palestinese ha annunciato – come risposta al mancato impegno di Israele di liberare i detenuti – l’adesione a 15 trattati internazionali e, in questi giorni, l’Olp ha manifestato l’intenzione di aderire ad altri 60. La seconda, invece, è l’accordo per un governo di unità nazionale con elezioni – la “riconciliazione” inseguita da tempo – tra Olp e Hamas (la fazione islamica al potere nella Striscia di Gaza, considerata da Israele, ma anche da Usa e Ue, organizzazione terroristica).
Israele ha chiesto il ritiro di entrambe le decisioni, poi ha annunciato le contromosse: sanzioni economiche contro l’Anp inclusa la sospensione delle tasse riscosse per conto dei palestinesi; la fine di ogni collaborazione tra le due amministrazioni e anche il blocco di progetti urbani palestinesi in area C, quella della Cisgiordania sotto controllo israeliano.
Uno scacco, al momento, completo, neppure attenuato dalla recente dichiarazione da parte di Abu Mazen – una prima volta – di condanna della Shoah. Messaggio respinto al mittente da Netanyahu, che ha ricordato al presidente palestinese il contrasto tra le sue parole sull’Olocausto e l’alleanza con Hamas intenzionata a distruggere Israele.
Massimo Lomonaco per AnsaMed