Dal numero 6 di Toscana Oggi del 10 febbraio 2013
Treno della memoria 2013 – Tra i tanti drammi del ‘900 c’è ne uno in particolare che è ancora in gran parte sconosciuto: lo sterminio di Rom e Sinti
di Lorenzo Canali
Il volto di una tragedia può avere tante sfaccettature. Il dolore può essere chiamato con nomi diversi. Tra i tanti drammi del ’900 ce n’è uno in particolare che è ancora in gran parte sconosciuto. È la sofferenza di un popolo che nella sua esistenza ha sempre dovuto subire persecuzioni e discriminazioni, pur vivendo costantemente in pace senza causare mai alcuna guerra. È lo strazio del «Porrajmos». In lingua romanì significa «divoramento» e viene utilizzato per indicare il genocidio di 500mila tra Rom e Sinti, ad opera dell’odio nazifascista durante la Seconda guerra mondiale. Una tragedia ricordata agli oltre 500 ragazzi giunti dalla Toscana ad Auschwitz con l’ottava edizione del Treno della Memoria.«Signore proteggi le anime di tutti gli innocenti morti nei lager e dona la consapevolezza all’umanità che le guerre portano solo annientamento e morte». Questa la preghiera pronunciata a Birkenau da Demir Mustafa, presidente dell’associazione Amalipé romanò di Firenze. «Si parla pochissimo dell’olocausto del popolo romanì – spiega Mustafa –. Ciò dipende in parte dal fatto che non sono stati molti i sopravvissuti al lager; a questo si aggiunge il forte pregiudizio che ancora oggi esiste nei confronti di queste comunit
La persecuzione di Rom e Sinti ha radici profonde in tutta Europa ed anche in Toscana. Il 3 novembre 1547, a Firenze un «bando sopra li Zingani et Zingane» costrinse queste popolazioni ad abbandonare il Gran Ducato.
Sin dall’800, in Germania, venivano fatti studi sui bambini strappati alle famiglie per analizzarne la presunta propensione naturale al delitto. Secondo tali teorie, queste popolazioni erano biologicamente pericolose, etnicamente inferiori. Contro la «piaga zingara» vennero emanate in tutta Europa leggi discriminatorie che prevedevano l’espulsione con foglio di via o che costringevano le comunità romanès a vivere in un luogo specifico, per tenerle lontane dal resto della popolazione.
Dal 1934, iniziarono le sterilizzazioni. In Svezia, ad esempio, furono rese obbligatorie per tutte le donne appartenenti a comunità romanès. Proseguiranno fino al 1975.
Le leggi razziali naziste stabilirono che, così come per gli Ebrei, anche a Rom e Sinti erano vietati i matrimoni misti. Divennero «cittadini di seconda classe». Infine, i campi di concentramento. Rom e Sinti erano considerati «asociali», «inferiori» per questo dovevano essere allontanati dalla «pura razza germanica». Teorie che finiranno per giustificare la soluzione finale. Il 2 agosto 1944 sarà una data che rimarrà indelebile nella storia romanì. Nelle camere a gas di Auschwitz, in un solo giorno, moriranno oltre 3mila Rom e Sinti.
Una tragedia che non ha ancora avuto giustizia. «A differenza di altri soggetti perseguitati nei lager nazisti – spiega il presidente dell’associazione Amalipé romanò di Firenze –, al nostro popolo non è stato riconosciuto ancora alcun risarcimento. Per anni il Porrajmos non ha avuto la stessa dignità di altri olocausti. Solo dal 2004 qualcosa ha iniziato a muoversi. Per la prima volta si è accertato che c’è stato uno sterminio di Rom e Sinti ad Auschwitz».
E se il volto del dolore subito da questo popolo fatica ancora ad essere riconosciuto, anche il pregiudizio e la discriminazione non cessano nemmeno ai nostri giorni. «La maggior parte delle comunità romanès – spiega Santino Spinelli, nel suo “Rom, genti libere” (Dalai Editore, 2012) – vivono in condizioni più che dignitose, eppure solo quelle più disadattate hanno visibilità mediatica. La popolazione romanì non viene più bandita, espulsa, deportata o annientata, ma “inquadrata” in stereotipi e controllata». A questo si aggiunge la politica dei campi nomadi. Una politica che «ha completamente fallito» perché «con il ghetto non può esserci integrazione, ma segregazione e degrado». Sono gli errori del passato che tornano come spettri nel nostro presente.
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