La percentuale dei cristiani in Israele, Giordania e Palestina è scesa ”al minimo storico”. Lo ha reso noto, in un incontro stampa, mons. William Shomali, vescovo ausiliare e vicario generale per la Palestina del Patriarcato Latino di Gerusalemme.
”In Israele siamo al 2%, in Giordania al 3% e in Palestina all’1,5%. Una volta eravamo al 10%. Tuttavia – spiega mons. Shomali – c’è anche un paradosso nelle statistiche perché, se siamo diminuiti in percentuale, oggi, contando in totale 400mila cristiani nei tre Paesi, abbiamo raggiunto il picco massimo in numeri assoluti”.

mons. William Shomali
vicario patriarcale per la Palestina
La diminuzione dei cristiani in percentuale, fa sapere il vescovo, è dovuta alla notevole crescita demografica dei musulmani e anche degli ebrei, da un lato, e dall’altro alla forte emigrazione cristiana. ”Questa condizione – osserva mons. Shomali – pone ai cristiani molte sfide. Innanzitutto, i cristiani devono uscire dal ‘ghetto’, non chiudersi in se stessi, reagire a questa situazione”. ”Dobbiamo inoltre convincerli a restare qui, in Terra Santa – prosegue -, non solo creando progetti, stabilità, opportunità economiche, ma anche sottolineandone il motivo teologico, evidenziando il fatto che nascere a Betlemme o a Nazareth è una vocazione e un privilegio. C’è poi – aggiunge il vescovo – la sfida ecumenica: noi cristiani siamo pochi e pure divisi tra le tre famiglie della chiesa cattolica, ortodossa e protestante”. Ancora, mons. Shomali indica per i cristiani la sfida del ”dialogo interreligioso” e quella della ”pace”.
Una pace che, però, in Medio Oriente “è sempre più un’utopia, perché stiamo assistendo a un irrigidimento del conflitto ideologico tra le due parti, israeliana e palestinese. Non è facile trovare una soluzione quando ci sono due destre così forti. La difficoltà politica – spiega Shomali – viene dall’insicurezza di cui è causa l’occupazione israeliana del ’67 e che Israele, però, non riconosce come occupazione”. ”Qui nasce il conflitto ideologico”, aggiunge, che si estende a tutte le questioni, ”da quella dei confini, a quella dei profughi, da quella della disputa su a chi appartenga lo spazio aereo, a chi l’acqua, a quella degli insediamenti costruiti nei Territori occupati che rendono sempre più difficile la soluzione internazionale dei due stati secondo i confini del ’48”.
La Chiesa, spiega il vescovo, non deve impegnarsi in una “mediazione diretta”, perché ”noi non siamo una istanza politica”. Tuttavia, prosegue, deve farlo ”a livello indiretto, perché’ le idee sono libere ed è a questo livello che possiamo influenzare come, ad esempio, ha fatto Benedetto XVI quando è venuto in visita in Terra Santa e ha parlato della soluzione dei due stati, due popoli.”
”La pace non arriva – sospira mons. Shomali – ma la speranza rimane, anche se ogni anno diminuisce, poiché la situazione diviene sempre più complessa, ideologizzata e abbiamo paura che sarà sempre più difficile superarla.”

Aleppo, Siria
Mons. Shomali parla anche della sua preoccupazione per l’evoluzione della cosiddetta ‘Primavera araba’. ”Perché si passi davvero alla democrazia – spiega – c’è bisogno della fede, come è avvenuto in Polonia dopo la caduta del Muro. Ma nel mondo arabo c’è una cultura della violenza, come vediamo in Siria. Assad è un dittatore – osserva Shomali – ma meglio un dittatore che mantiene la stabilità che il caos, tra due mali bisogna scegliere il meno peggio. Ora abbiamo una situazione drammatica, si muore di fame e se la ‘rivoluzione’ è fallita in Egitto dove c’era un islam moderato, in Siria dobbiamo aspettarci una situazione dieci volte peggiore, con le minoranze che, dopo Assad, saranno ancora più vessate e vittime di terribili vendette”.
”Bisogna rinunciare al sogno americano di esportare la democrazia in cinque settimane – sottolinea il vescovo – Ci vuole molto più tempo per passare da uno stato all’altro, come dimostra il caso dell’Iraq, mentre in Egitto i Fratelli Musulmani hanno scippato la rivoluzione al popolo declinandola in senso islamista.”
Fonte: Ansa