Oggi alle 19.30 e 23.40 va in onda la puntata n. 75 di “Mappe. Spunti per comprendere dove siamo”, programma ideato e condotto da Anselmo Grotti con la collaborazione di Ilaria Vanni. La puntata si intitola “Un altro continente”.
Si possono ancora scoprire nuovi continenti sulla Terra? A quanto pare sì, lo si è fatto ancora nel 2009: il Garbage Patch. Il Garbage Patch è una zona di concentrazione di rifiuti marini nel Pacifico settentrionale. Il nome ha portato molti a credere che questa zona sia una zona grande e continua di elementi ben visibili, detriti marini come bottiglie e altri, simili a una coperta di rifiuti che dovrebbe essere visibile con fotografie satellitari o aeree. Questo non è vero. Gran parte dei detriti sono piccoli frammenti di detriti di plastica galleggiante. Questi pezzi di plastica sono piccoli e non immediatamente visibili ad occhio nudo. Si tratta di cinque vortici di correnti marine al cui centro si trovano i residui sminuzzati di tonnellate e tonnellate di plastica, che però non galleggiano.
A causa della fotodegradazione, infatti, il materiale non viene metabolizzato dal mare, si frantuma in pezzi sempre più piccoli fino a diventare microscopico, per finire poi mangiato dalla fauna marina, entrando così nella catena alimentare. I microframmenti di quella plastica buttata nei mari creano un “brodo” che è scambiato dai pesci per plancton. Così quelle sostanze, incamerate nelle carni dei pesci, arrivano a noi che a nostra volta le incorporiamo nei nostri organismi. Dal 2009 ad oggi però la semplice notizia di questa scoperta non ha provocato molte conseguenze: non abbiamo ancora ben compreso la portata devastante dell’accumulo di tanti rifiuti plastici negli oceani – non si dimentichi che tali rifiuti parcellizzati finiscono nella dieta dei pesci e alla fine anche nella nostra.
Possono servire gesti di creatività. L’11 aprile 2013 è nato formalmente lo stato Garbage Patch: due volte il Texas. L’ha fondato un’artista italiana, Maria Cristina Finucci. Lo Stato è riconosciuto dall’Unesco, presentato alla Biennale di Venezia e al Maxxi di Roma. “Anni fa venni a sapere della tragedia delle isole di plastica, presa un po’ sottogamba dalla comunità scientifica – spiega Finucci -. Visto che non ci sono foto, era necessaria un’immagine che sintetizzasse il problema”.
Nessuno Stato si preoccupa della pulizia: non dà noia all’apparenza è nessuno, è isolata nel bel mezzo dell’Oceano. Non si capsice bene come si potrà ripulire il mare: se dovesse essere utilizzata una grande rete, verrebbero portati via anche innumerevoli animali marini delle stesse dimensioni dei pezzetti di plastica. E chi prenderà la spazzatura depositata nei fondali profondi? Questa vicenda non si limita all’ambito ecologico. È anche una metafora del nostro vivere.
Possiamo pensare di non occuparci delle conseguenze negative delle nostre azioni. Apparentemente non ci riguardano più. Eppure ci sono, da qualche parte. E in qualche modo, possiamo esserne certi, verranno a chiederci il conto.
Per fortuna c’è ancora da raccontare una storia incoraggiante. Delft, Olanda.
Boyan Slat a 18 anni si prepara all’esame liceale. La sua tesina è “Ripulire il mare di plastica in soli 5 anni”.
Il capitano Moore, scopritore del continente di spazzatura, aveva proposto di pescarli. Solo che accorerebbero 79.000 anni. I frammenti di plastica sono per lo più nell’oceano Pacifico. Ma sono anche in casa nostra: 250 miliardi di frammenti navigano nel Mediterraneo. Slat, da buon olandese, propone delle “dighe” capaci di imprigionare la plastica e lasciar liberi gli esseri viventi. Attualmente lavorano all’idea 50 ingegneri. Facciamo il tifo per loro. Altrimenti occorreranno mille anni perché la plastica si decomponga del tutto. Ma non sparirà: sarà dentro i nostri organismi.
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