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70 anni fa l’Armistizio. Orlando Mazzi e quei ragazzi abbandonati a se stessi

08/09/2013 / Redazione / Notizie
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Dal numero 31 de La Voce di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, fascicolo diocesano di Toscana Oggi, il racconto dell’8 settembre 1943 di Orlando Mazzi. Giovane soldato di leva aretino, inviato nei Balcani, si trovò d’improvviso a fronteggiare due nemici: i nazisti e i partigiani titini. Nel lungo ritorno verso casa, passò da una prigionia all’altra, vedendo i propri compagni morire lentamente, uno dopo l’altro.

La Voce

Il numero 31 de La Voce di Arezzo-Cortona-Sansepolcro

Il suo ultimo 8 settembre, Orlando Mazzi non è riuscito a viverlo. Il destino ha voluto tirargli l’ennesimo scherzo, portandolo via a pochi giorni dal 70esimo anniversario di quel lontano 1943 che, assieme alla storia italiana, segnò anche la sua vita. Lui, quel giorno, era un soldato di leva poco più che ventenne. Dalla sua Campriano, alle porte di Arezzo, era partito al seguito del 129esimo Reggimento Fanteria – 4/a Compagnia mitraglieri Divisione Perugia. Destinazione Albania. Lì, ha vissuto sulla propria pelle uno dei momenti più controversi della Seconda guerra mondiale. Quel pezzo di storia e di vita, Orlando ha voluto metterlo nero su bianco perché non fosse dimenticato. Il suo «Diario di uno scampato», oggi conservato presso l’archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, è una delle testimonianze più preziose di quanto subito dai soldati italiani, dopo l’armistizio firmato con le forze Anglo- Americane alleate. Così, Orlando racconta quel momento: «L’8 settembre del 1943 arrivò la notizia dell’armistizio, ci fu un po’ di gioia che durò poco. Il Colonnello fece adunata e disse tante cose tra le quali che la guerra cominciava ora».

Orlando Mazzi con alcuni suoi commilitoniDi fronte allo smarrimento per la mancanza di indicazioni chiare da parte degli alti comandi, assieme al suo battaglione si ritrovò ben presto in balìa di due nemici: le rappresaglie tedesche e le violenze dei partigiani titini. Raggiunse Porto Edda, l’attuale Saranda, nel sud dell’Albania. Da lì partivano le imbarcazioni dirette in Italia. Dopo 9 giorni d’attesa, finalmente, sembrava arrivato il momento di fare rotta verso casa. Ma fu soltanto un’illusione. «Si vide spuntare la nave che era per noi e ci fu una certa allegria. Quando ancora la nave non era arrivata al Porto si videro spuntare i bombardieri tedeschi che con 14 incursori affondarono la nave». Il giorno seguente, sorvolò il porto un veivolo italiano: «Buttarono giù un manifesto tricolore che diceva: “Date le armi ai partigiani e recatevi a Porto Palermo perché qui l’imbarco è difficile, ci sono i tedeschi nell’isola di Corfù». Per Orlando, è un altro duro colpo. «Come fecero gli ufficiali a credere a una fregnaccia del genere? Abbandonare le armi? Io piansi, ma non fui solo. Si capì il tradimento, ma non si poteva fare niente». Finito nelle mani dei nazisti, gli offrirono due alternative: combattere al loro fianco o finire prigioniero. «Io, come tanti altri, si pensò: abbiamo lasciato le armi italiane e quelle straniere non si riprendono».

Così, fu deportato da un campo di concentramento all’altro. Fu portato prima in Grecia e poi, a bordo di una carro bestiame, attraversò i Balcani, fino alla Bulgaria. Destinazione finale il campo di Flugafen, a 14 chilometri da Belgrado. «In ogni baracca eravamo 20 prigionieri. La sera ci misero in queste baracche e come si poteva dormire che non c’era niente?». In queste condizioni, il corpo di Orlando iniziò a dare segni di cedimento. «In quei giorni mi si congelò il dito pollice del piede destro. […] Guarito un po’ da questo congelamento mi venne la febbre da malaria». Dopo l’ennesimo trasferimento, con destinazione ignota, il 5 maggio 1945 arrivò finalmente la liberazione. Una data che Orlando ricorderà a lungo, per più di un motivo. «In quella data morì anche il mio babbo, ma in quel momento io non sapevo nulla».

 

Orlando Mazzi indicato dalla freccia

Orlando Mazzi indicato dalla freccia

Il giovane soldato di leva di Campriano iniziò così la lunga marcia verso casa. Le sventure non erano ancora terminate. Questa volta furono i partigiani di Tito a farlo prigioniero: «Ci presero tutto quello che faceva loro comodo. Io rimasi in pantaloncini e scalzo[…] per mangiare ci davano un mestolo di brodaglia e niente più […]. Si ripartì e ci portarono alla stazione e noi si disse: con il treno dove ci vogliono portare si farà prima e invece ci montarono nei carri bestiame, nel mio vagone eravamo 107. Per due giorni fummo chiusi a catorcio, non ci diedero neanche l’acqua si fecero solo 60 chilometri. Come saremo stati! La fame, la sete, il bagno, cose da non credere». Scesi dai vagoni, iniziò una nuova lunga marcia: «Ci si prendeva a braccetto come tre ubriachi e invece non si stava in piedi dalla debolezza». In queste condizioni si era disposti a tutto: «Strada facendo vidi due maiali a mangiare in un trogolo ed erano proprio lungo la strada, io presi la gavatta e la intufai in quel trogolo e presi un po’ di broda di quei maiali. Un partigiano mi diede una pedata che mi prese nell’osso sacro. Fu un dolore da svenire, ma in fondo fui fortunato perché non mi sparò e con quella broda si mangiò in tre persone».

Lungo quel tragitto «un terzo di noi morì», racconta Orlando. Arrivato a Orsiek vide le fosse comuni, in cui furono seppelliti i corpi dei compagni: «Li prendevano chi per le gambe, chi per i bracci e li buttavano giù come andavano, poi coprivano quel pezzo e il resto restava aperto per un’altra volta». Di fronte a quelle immagini di morte, sembra tutto finito: «L’unica speranza era di morire senza essere torturati». Poi, l’ennesimo trasferimento a Lubiana. Un ultimo lungo interrogatorio e, finalmente, il rientro in Italia. Arrivato ad Arezzo pesava appena 35 chili, lo portarono a Campriano con un carro trainato dai buoi. È il passaggio più toccante del suo diario. «Si arrivò a casa alle ore 18 del 16 giugno. Di quel momento non posso descrivere nulla. Ero un uomo irriconoscibile. La casa era stata incendiata dai bombardamenti, il babbo morto, le finestre senza finestre, le porte senza porte. […] Io rimasi così male che diventai una mummia, non avevo né lacrime, né parole, questo non so descriverlo».

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